Intervista a Piero Simon Ostan

Il nuovo libro di poesie di Piero Simon Ostan arriva cinque anni dopo l’esordio de Il salto del salvavita (Campanotto, 2006). Già nel titolo, Pieghevole per pendolare precario, ci sono due tracce della poesia dell’autore, una tematica e una stilistica: la precarietà e l’ironia. Il libro infatti attraversa la difficile condizione di una generazione, dei nostri tempi, descrivendo dettagli e luoghi in un modo mai rassegnato, bensì capace di distaccarsi, magari con un sorriso amaro, con le allitterazioni e i giochi fonici che sembrano immergere persino il traffico della tangenziale di Mestre in un’atmosfera da favola di impronta zanzottiana.

Nella prefazione, Villalta afferma:«apparentemente dimesso, l’aspetto formale e linguistico di queste poesie gioca invece una posta molto alta, scommettendo sulla soglia di abbassamento possibile della tonalità lirica, fino al dialetto più tritamente quotidiano, per ottenere un’attenzione più disarmata e fare breccia nelle difese del lettore». Ecco allora che l’individuo-lingua non teme di addentrarsi nell’impoetico, perché ciò che gli interessa veramente è cogliere la direzione del nostro tempo.

Partirei proprio da quest’ultimo punto. Piero, nella tua poesia ci sono così tanto segni della quotidianità, a volte anche banale: le insegne dei negozi, il navigatore satellitare, il cellulare, la mensola conficcata nel cartongesso. Perché senti il bisogno di costellare le tue poesie di questi oggetti?

Io vivo in questo tempo. Sono immerso in tutti questi oggetti, li uso e li vedo tutti i giorni, sono parte della mia quotidianità, e sono ormai i punti distintivi della nostra generazione. La mia poesia si risolve hic et nunc, quindi non posso prescindere da ciò che ho intorno. Certi oggetti come la mensola mi servono poi solo come metafore, per portare il discorso completamente da un’altra parte. L’intento, forse presuntuoso, del pieghevole è poi quello di provare a dire: vanno bene cellulari, navigatori, insegne ma l’importante è che ci sia sempre un senso nell’uso che ne facciamo. In sostanza mi sembra che siamo molto spesso dipendenti dagli oggetti,  invece dovremmo provare  almeno a riflettere sul rapporto che con loro abbiamo instaurato,  provare a dare ogni volta un senso all’uso delle cose; ma questo non vale solo per gli oggetti.

Una delle caratteristiche più evidenti della tua poesia è l’intersezione continua di italiano e dialetto. Perché questa scelta?

Devo partire da lontano per dare conto del senso che mi ha portato a questa intersezione. Durante gli anni dell’università ho seguito dei corsi monografici sulla letteratura triestina e su Pasolini; è solo qui che ho conosciuto i poeti dialettali e la loro poesia, quella tra il Veneto e il Friuli Venezia-Giulia. Ho cominciato a studiare Pasolini degli anni di Casarsa, Virgilio Giotti, Biagio Marin e poi Romano Pascutto e Giacomo Noventa. Mi si è aperto un mondo nuovo, quello che sapeva della mia terra. Il mio primo testo che io possa annoverare come testo poetico diceva: “ Che bel che xe, mama leser le poesie in dialeto/ Somea quasi che le sia più tue”. È dunque il dialetto che mi ha dato la motivazione per iniziare a scrivere ed è appunto in dialetto che ho cominciato. L’Italiano è venuto successivamente;  senza accorgermene, mentre scrivevo, scivolavo nel dialetto. Il risultato mi è sembrato interessante, anche dal punto di vista della musicalità del verso; poi mi sono accorto che (ma questa è una cosa tipica delle nostre zone) in situazioni comunicative informali tendo, mentre parlo in italiano, a mischiare e a scivolare nel dialetto.  Dunque avevo semplicemente, senza rendermene conto, prodotto una mimesi del parlato nelle poesie; da quel momento non ho più smesso di scrivere così. In alcuni blog di poesia (www.liberinversi.splinder.com) la discussione sulla mia poesia ha sempre trovato grandi estimatori grazie a questa commistione e per contro molti perplessi, che vedevano questa contaminazione come una scelta studiata a tavolino, un fatto non naturale. A voi giudicare.

Quale ruolo gioca il paesaggio nella tua riflessione poetica?

Il paesaggio è fondamentale nella mia poesia. Mi ha sempre affascinato il rapporto poesia/paesaggio tanto che ho scritto tempo fa anche una breve riflessione riguardo a  questo rapporto nell’opera di Umberto Saba. Ne “Il Salto del Salvavita” ho fatto un operazione abbastanza banale: quella di misurare la distanza tra il paesaggio tradizionale e quello contemporaneo. Ottenendo come risultato una sorta di nostalgia che non era di certo né innovativa né particolarmente brillante.  Nel “Pieghevole” invece, il tentativo è stato quello, non tanto di misurare una distanza, quanto di mostrare, attraverso le poesie, un paesaggio che modifica inevitabilmente, nelle sue espressioni, lo stato d’animo. È dunque un paesaggio che, seppur reale e oggettivo nel “Pieghevole” diventa del tutto interiore e funzionale a mantenere quel filo rosso sottile, cioè la precarietà, che intende unire  la mia raccolta.

È vero che ora inizierai una serie di performance poetico-musicali insieme al gruppo Le cose sicure? Puoi dirci di che tipo di progetto si tratta?

Sì, è vero. Per dare conto del progetto dovrei dilungarmi nello spiegare il mio rapporto tra musica e poesia che è iniziato ancora all’epoca de “Il Salto del Salvavita”. La prima raccolta veniva, infatti, presentata attraverso una performance teatrale che conteneva le prime poesie musicate dal gruppo Orchestrina Orchestrazione e dal suo fondatore Max Bazzana (confluite da poco in un cd dal titolo “Stanno tutti dormendo”). Il progetto “Le cose sicure” nasce sull’onda dell’esperienza vissuta all’interno dell’Orchestrina, anche se questo gruppo nasce prevalentemente come band musicale. Essenzialmente dunque portiamo avanti due modalità di lavoro: quella di realizzazione di canzoni e quella di ideazione e creazione di letture poetiche attraverso la musica contenenti tutte canzoni originali. L’esibizione con cui viene presentato il “Pieghevole” è una sintesi di tutto questo.

Oltre ad essere poeta e insegnante (precario, v. titolo!), organizzi la Festa di Poesia a Pordenone e Notturni di_versi a Portogruaro, mettendoti nei panni di osservatore di poeti. Quale contributo dà questa tua attività alla tua poesia? Verso dove credi stia andando la nuova poesia italiana?

Il fatto di organizzare la Festa di Poesia e Notturni di_versi, sono attività per me essenziali non solo integranti del mio modo di essere  poeta. Attraverso queste due importanti iniziative ho sempre avuto l’opportunità di ascoltare  molti poeti contemporanei, con particolare attenzione a quelli della mia generazione. Ho l’opportunità di sentirli “porgere” i loro versi che è cosa ben diversa da leggerli solamente, ho modo di confrontarmi, creare relazioni, scambi che sono spesso fonte di ispirazione e motivazione a migliorare. L’unica cosa non del tutto positiva è che spesso mi capita di leggere i miei coetanei non solo per il piacere di leggere poesia ma in funzione dell’organizzazione della Festa di Pordenone e quella di Notturni di_versi.

Da quello che ho potuto osservare, in questi anni credo che siano ben chiare due tendenze nella nuova poesia: la prima tendenza riguarda una poesia che usa con parsimonia gli aggettivi che sta molto attenta a mantenere il verso equilibrato, senza cioè voler stupire con termini che possano colpire il lettore in maniera troppo facile.  In sostanza c’è un generale abbassamento della tonalità lirica fino quasi ad arrivare ad una sintassi e a termini tratti direttamente dal parlato. In generale, credo si stia sempre più radicando la poesia dell’“impoetico”, quella cioè, per capirci, che tende a sgretolare qualsiasi locus amoenus. Infine è una poesia che tende a parlare al lettore/ascoltatore in maniera più schietta e diretta di ciò che ci succede, senza perdere però l’originalità e la profondità del suo particolare sguardo.

La seconda tendenza riguarda la poesia performativa. In questo tipo di poesia la cosa importante non è solo ciò che si dice ma soprattutto come la poesia viene declamata ad un pubblico. Diviene allora importante saper stupire l’ascoltatore/lettore attraverso il tecnicismo, che metta in evidenza il virtuosismo nell’uso della parola, prima ancora del significato della parola stessa. La diffusione dei poetry slam sono la dimostrazione di questa tendenza poetica, i poeti sono chiamati a sfidarsi tra loro declamando  i loro versi davanti ad un pubblico, che a suo volta è chiamato a votare il poeta ritenuto migliore.

 

 

Pensi che sia importante parlare di poesia a scuola? Perché?

 

Penso che sia importantissimo parlare di poesia a scuola e credo sia giusto non tralasciare i classici. Pur insegnando alle medie, punto molto con i miei studenti su Dante e Leopardi (per fare solo due nomi). Credo sia importante abituarsi da subito a rifare con i ragazzi gli stessi ragionamenti che gli autori hanno prodotto nelle loro opere e per questo ritengo che un’attività come quella di imparare a memoria una poesia non sia solo un’operazione noiosa e fine a se stessa ma voglia puntare a imprimere in loro gli stessi meccanismi prodotti nei testi dai nostri poeti. Credo d’altra parte che non si possa fermarsi a questo e che, accanto ai classici, sia di enorme importanza presentare ai nostri studenti anche i poeti contemporanei, quelli, ad esempio, che leggono i loro professori, dando loro la stessa importanza che si dà ai classici. Inoltre è importante parlare con gli studenti di poesia dialettale, leggere assieme i poeti che hanno scritto nei dialetti delle loro zone,  quelli che hanno parlato delle loro terre, che fanno ancora parte di loro stessi più di quanto possano credere.

 

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